Non dovrà salire il carovita nei prossimi 12 mesi per permettere ai detentori di BoT di conservare il capitale in termini reali. Il rendimento netto dei buoni all'ultima asta è stato del 3,6% (senza però tener conto delle commissioni), quindi pari all'inflazione tendenziale di maggio. Inflazione che è ai massimi dal luglio del 1996, un periodo nel quale i BoT rendevano però il 7,2% al netto delle tasse, secondo i dati riportati da «Indici e Dati» dell'ufficio studi Mediobanca. Al di là dei BTp indicizzati all'inflazione, non sono molti i titoli di Stato che ora consentono di ripararsi con un buon margine sull'incremento atteso dei prezzi al consumo: le durate più lunghe dei BTp a cedola nominale (quelle che scadono oltre il 2030) offrono tassi netti del 4,5 per cento.
L'attuale compressione dei rendimenti obbligazionari in presenza di attese di elevata inflazione è stata definita un puzzle dall'«Economist» del 31 maggio. È difficile spiegare infatti come gli investitori internazionali siano disposti ad accettare ritorni reali risicati o addirittura negativi investendo al 4% lordo in Treasury Bond americani, per di più in un contesto di incertezza sul dollaro. Il settimanale ha ricordato il precedente del 1962, quando il rendimento del T-Bond Usa era inferiore al 4%. Chi li acquistò allora ha ottenuto rendimenti reali negativi nei successivi periodi di cinque, 10 e 20 anni. Investire in strumenti "sicuri" è raramente stato così "rischioso", ovviamente in termini di eventualità che il risultato finale dell'investimento sia – a parità di potere d'acquisto – inferiore al capitale iniziale. Gli investitori sono all'ennesimo bivio: credere in una profonda recessione globale (e allora i titoli di Stato sono l'affare migliore), o a una ripresa economica ancora poco visibile (e allora le azioni sono l'impiego più interessante). In mezzo, ci sta lo scenario peggiore, stile anni 70, in cui la crescita è molto debole e l'inflazione pericolosamente alta.
marco.liera@ilsole24ore.com